Figli di nessuno


Desideri e bisogni dei “figli di nessuno” erano quelli di una rivolta capace
di esprimersi su tutti i piani della complessità sociale vissuta, non di suoi
parziali comparti. Di rivolta totale, esistenziale, abbisognavano, e questo
strideva con la politica dei gruppi extraparlamentari, in quel periodo, tra
l’altro, in crisi. Una crisi che i più lungimiranti avevano affrontato con la
scelta dello “scioglimento” come precondizione per una possibile
ridefinizione di strategia, tattica, organizzazione, programma, e che i meno
accorti avevano affrontato con velleitari ed effimeri progetti di partito
ereditati dal frusto repertorio della tradizione terzinternazionalista.

 

Il
bisogno di rivolta esistenziale per i “figli di nessuno” muoveva comunque
dall’intuizione che la fabbrica, il suo paradigma di sfruttamento, la sua
“centralità”, acquisiva, diffondendosi, carattere di totalità, finiva cioè
col dominare tutto il complesso delle relazioni sociali in cui era inserita, Ciò
significava, per esempio, che la lotta in fabbrica non poteva essere disgiunta
dalla lotta in famiglia, perché essa ne era completamente coinvolta, sia sul
piano materiale che ideologico.

Per
questi motivi sui “figli di nessuno” più che le teorie pseudoleniniste dei
partitini extraparlamentari fece presa la combinazione di concetti quali
“autonomia”, “rifiuto del lavoro” e tutto il colorito e suggestivo
repertorio delle “controculture”. Il “rifiuto del lavoro”, per esempio,
fu concetto acquisito istintivamente perché fortemente allusivo del bisogno di
rottura radicale, improbabile oggettivamente ma non soggettivamente: la
consapevolezza di essere minoranza allo stato dei fatti, in quel determinato
contesto sociale, non impediva l’intuizione di essere però maggioranza sul
piano della proiezione potenziale, di essere la rappresentazione del futuro
possibile, soggetti della crisi e variabili di uno sviluppo alternativo che
metteva al centro non tanto la liberazione del lavoro ma dal
lavoro.

I
tratti salienti di questa nuova soggettività erano maturati nella crisi di
rapporto con le due principali “sfere” della formazione: la famiglia e la
scuola.

Si
trattava della prima generazione della scolarizzazione di massa compiuta.
All’interno delle famiglie proletarie i figli si ritrovarono portatori di un
bisogno di interlocuzione che i genitori non potevano che evadere con un
drammatico sentimento di “vergognosa” inferiorità. Per i genitori, decenni
di lotte per la conquista del diritto alla scolarizzazione significavano
innanzitutto la possibilità di strappare i propri figli dall’inevitabilità
del destino operaio. Non avevano fatto ancora in tempo ad assaporare il piacere
della conquista per i propri figli del privilegio dell’accesso al sapere,
privilegio fino allora concesso solo ai borghesi, che quegli stessi figli gli si
rivoltavano contro imputandoli di accondiscendenza con i principi, i valori, la
cultura dello sfruttamento. Fu così che all’interno delle famiglie proletarie
il conflitto generazionale si risolse da parte dei giovani in rottura della
comunicazione, in silenzio ed estraneità poiché da quell’ambito di
socializzazione nessuna interlocuzione utile poteva prodursi ai fini di una
trasformazione. La famiglia era vissuta come un rigido guscio vuoto,
un’istituzione capace solo di trasmettere principi ordinativi e disciplinari
conservativi dei valori in disfacimento.

 




(Sergio Bianchi da "Settantasette – la rivoluzione che viene" –
deriveapprodi 1997)

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