Il nostro bisogno di consolazione

Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere
un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia
solo un vagare insensato verso una morte certa. Non ho ereditato né un dio né un punto
fermo sulla terra da cui poter attirare l’attenzione di un dio. Non ho ereditato
nemmeno il ben celato furore dello scettico, il gusto del deserto del razionalista o
l’ardente innocenza dell’ateo. Non oso dunque gettare pietre sulla donna che
crede in cose di cui io dubito o sull’uomo che venera il suo dubbio come se non fosse
anch’esso circondato dalle tenebre. Quelle pietre colpirebbero me stesso, perché di
una cosa sono convinto: che il bisogno di consolazione che ha l’uomo non può essere
soddisfatto.

Cosa stringo allora tra le mie braccia?

 

Poiché sono solo: una donna amata o un infelice
compagno di strada. Poiché sono un poeta: un arco di parole che tendo sentendomi
pervadere di gioia e di spavento. Poiché sono un prigioniero: un improvviso spiraglio di
libertà. Poiché sono minacciato dalla morte: un animale caldo e vivo, un cuore che batte
irridente. Poiché sono minacciato dal mare: uno scoglio d’inamovibile granito.

Posso riempire tutti i miei fogli bianchi con le
più belle combinazioni di parole che sorgono dal mio cervello. Siccome desidero
assicurarmi che la mia vita non sia priva di senso e che io non sia solo sulla terra,
raccolgo le parole in un libro e ne faccio dono al mondo. Il mondo mi dà in cambio dei
soldi, la fama e il silenzio. Ma che m’importa dei soldi, che m’importa di
contribuire a rendere più grande e perfetta la letteratura? L’unica cosa che
m’importa è quella che non ottengo mai: l’assicurazione che le mie parole hanno
toccato il cuore del mondo. Cos’è allora il mio talento se non una consolazione per
la mia solitudine? Ma che consolazione spaventosa, che riesce solo a farmi vivere la
solitudine con intensità cinque volte maggiore!

Uomini diversi hanno padroni diversi. Io, per
esempio, sono a tal punto schiavo del mio talento che non ho il coraggio di farne uso per
timore d’averlo perso. Sono poi così schiavo del mio nome da non osare quasi
scrivere una riga per paura di arrecargli danno. E quando infine sopravviene la
depressione, sono schiavo anche di quella. Il mio più grande desiderio diventa quello di
trattenerla, il mio più grande piacere è sentire che il mio unico valore stava in ciò
che credo di aver perduto: la capacità di spremere bellezza dalla mia disperazione, dal
mio disgusto e dalle mie debolezze. Con gioia amara voglio vedere le mie case crollare e
me stesso sepolto nell’oblio. Ma la depressione ha sette scatole, e nella settima
sono riposti un coltello, una lametta da barba, del veleno, un’acqua profonda e un
salto da una grande altezza. Finisco per essere schiavo di tutti questi strumenti di
morte. Mi seguono come cani, o sono io a seguirli come un cane. E mi pare di capire che il
suicidio è l’unica prova della libertà umana.

Dal momento che mi trovo sulla riva del mare, dal
mare posso imparare. Nessuno ha il diritto di pretendere dal mare che sorregga tutte le
imbarcazioni o di esigere dal vento che riempia costantemente tutte le vele. Così nessuno
ha il diritto di pretendere da me che la mia vita divenga una prigionia al servizio di
certe funzioni. Non il dovere prima di tutto, ma prima di tutto la vita! Come ogni essere
umano, devo avere diritto a dei momenti in cui posso farmi da parte e sentire di non
essere solo un elemento di una massa chiamata popolazione terrestre, ma di essere
un’unità che agisce autonomamente.

Solo in questi momenti posso essere libero davanti
a tutte quelle consapevolezze sulla vita che mi hanno prima portato alla disperazione.
Posso riconoscere che il mare e il vento non potranno che sopravvivermi, e che
l’eternità non si cura di me. Ma chi mi chiede di curarmi dell’eternità? La
mia vita è breve solo se la colloco sul patibolo del calcolo del tempo. Le possibilità
della mia vita sono limitate solo se faccio il conto della quantità di parole o di libri
che avrò il tempo di produrre prima della mia morte. Ma chi mi chiede di fare questo
conto? Il tempo è una falsa misura per la vita. Il tempo è in fondo uno strumento di
misura privo di valore, perché tocca esclusivamente le mura esterne della mia vita.

Ma tutto quel che mi accade di importante, tutto
quel che conferisce alla mia vita il suo contenuto meraviglioso – l’incontro con
una persona amata, una carezza sulla pelle, un aiuto nel bisogno, il chiaro di luna, una
gita in barca sul mare, la gioia che dà un bambino, il brivido di fronte alla bellezza
– tutto questo si svolge totalmente al di fuori del tempo. Che io incontri la
bellezza per un secondo o per cent’anni è del tutto indifferente. Non solo la
beatitudine si trova al di fuori del tempo, ma essa nega anche ogni relazione tra il tempo
e la vita.

Depongo dunque il fardello del tempo dalle mie
spalle e, con esso, quello delle prestazioni che da me si pretendono. La mia vita non è
qualcosa che si debba misurare. Né il salto del capriolo né il sorgere del sole sono
delle prestazioni. E nemmeno una vita umana è una prestazione, ma uno svilupparsi e
ampliarsi verso la perfezione. E ciò che è perfetto non dà prestazioni, opera nella
quiete. È privo di senso sostenere che il mare esiste per sorreggere flotte e delfini. Lo
fa, certo, mantenendo però la sua libertà. Ed è altrettanto privo di senso affermare
che l’uomo esiste per qualcos’altro che non sia il vivere. Certo, egli alimenta
macchine o scrive libri, ma potrebbe fare qualsiasi altra cosa. L’essenziale è che
faccia quel che fa mantenendo la propria libertà e con la chiara coscienza di avere in
sé – come ogni altro dettaglio della creazione – il proprio fine. Egli riposa
in se stesso come una pietra sulla sabbia.

Posso anche essere libero dinanzi al potere della
morte. Certo, non potrò mai liberarmi dal pensiero che la morte segue i miei passi, e
tanto meno negare la sua realtà. Ma posso ridurre la minaccia fino ad annullarla non
ancorando la mia vita a punti d’appoggio tanto precari come il tempo e la fama.

Il mondo è dunque più forte di me. Al suo potere
non ho altro da opporre che me stesso – il che, d’altra parte, non è poco.
Finché infatti non mi lascio sopraffare, sono anch’io una potenza. E la mia potenza
è temibile finché ho il potere delle mie parole da opporre a quello del mondo, perché
chi costruisce prigioni s’esprime meno bene di chi costruisce la libertà. Ma la mia
potenza sarà illimitata il giorno in cui avrò solo il mio silenzio per difendere la mia
inviolabilità, perché non esiste ascia capace di intaccare un silenzio vivente.

Questa è la mia unica consolazione. So che le
ricadute nella disperazione saranno molte e profonde, ma il ricordo del miracolo della
liberazione mi sostiene come un’ala verso una meta vertiginosa: una consolazione più
bella di una consolazione e più grande di una filosofia, vale a dire una ragione di vita.

Stig Dagerman 

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